Gravina Doc Poggio al Bosco 2010: eleganza e freschezza nordiche in un puerapuliae…

I Vini e le Cantine di Radici

Tranquilli, non avete le traveggole, siete ancora al Sud e non a Terlano o Termeno in Alto Adige, oppure nel Collio goriziano o in Borgogna. La bottiglia che avete di fronte, una bella bottiglia, appunto stile borgognona, è sempre di un bianco prodotto in “Terronia”, o meglio ancora Puglia, Meridione d’Italia, ma come se fossimo in Friuli Venezia Giulia o in una grande terra di vini bianchi come l’Irpinia, si tratta, cosa rarissima per la terra dei trulli, di un cru.

Oppure se non vogliamo scomodare l’espressione francese, di una selezione di vigna. Chi ha avuto l’ardire di pensare che anche in terra pugliese, dove come continuo a dire il consumatore deve prestare attenzione non solo ai grandi rossi e ai fantastici rosati, ma a tutta una new wave di bianchi, si potesse produrre un cru è il portabandiera e “l’azionista di maggioranza” di quella che io considero la più importante Doc in bianco di Puglia, Gravina, (Doc dal 1983) situata in quella zona particolare, da un punto di vista geologico e microclimatico che è la Murgia barese. Una Doc che prende il nome dalla località, Gravina in Puglia, ma vuole indicare anche la caratteristica fondamentale del territorio in cui viene prodotto. Il termine 'gravina', infatti, designa le spaccature profonde presenti nei terreni calcarei della zona. Portabandiera di Gravina e del Gravina Doc nel mondo è la Cantina Botromagno di Beniamino D’Agostino che ho conosciuto nel lontano 1994 e di cui mi onoro di essere amico nonostante il nostro tifo calcistico vada (entrambi nati a Milano) alle due diverse squadre della città della Madunina. Non contento di produrre, con la collaborazione del fratello Alberto, con il quale ha pensato di dare vita nel centro storico di Gravina ad un’osteria di gran tono come l’Osteria Grano e vino, dove si beve bene e si mangia ancora meglio, un Gravina “base” di ottimo livello, grande rapporto prezzo e piena affidabilità che si vende molto bene in una dozzina di Paesi, negli States ad opera della Winebow di Leonardo Lo Cascio, Beniamino, che di studi e formazione sarebbe avvocato, ma che si è progressivamente “innamorato” del vino grazie ai molti anni di consulenza con la cantina di quel grande uomo e tecnico che è Severino Garofano (oggi sostituito, con validi risultati, da Alberto Antonini) qualche anno fa si è messo “in d’ ‘a capa” un’idea brillante. E ambiziosa. Produrre un Gravina Doc più importante di quello che è tuttora la base produttiva ed il simbolo dell’azienda, che potesse esprimere al massimo le potenzialità della zona di origine, del suo speciale terroir e delle più importanti uve da cui nasce. Insomma un Gravina cru, che non fosse specchio di un disciplinare che ancora prevede che “il Gravina Doc si ottiene da vitigni Malvasia del Chianti, Greco di Tufo, Bianco di Alessano, fino a un massimo del 60%, e da Bombino bianco, Trebbiano toscano e Verdeca” e puntasse prevalentemente sulle uve più pregiate come il Greco. Una volta individuato il posto giusto, è nato il progetto che si è tradotto nel Gravina Poggio al Bosco (prezzo in enoteca intorno ai 12 euro). Il merito del vino, la sua nobilitate, sta tutta difatti nella disponibilità di una vigna singola, situata in una zona incontaminata al confine con il Bosco comunale Difesa Grande, il più importante polmone verde della Puglia Centrale, a 600 metri di altezza. Un vigneto esposto a sud ovest impiantato nel lontano 1991, con 5.000 ceppi per ettaro, spallieracon potatura Guyot,euve da selezione zonale durata oltre 10 anni in collaborazione con l’Università di Agraria della Basilicata, su terreni dotati di buon scheletro, substrato calcareo e ciottolo bordolese, elevata escursione termica tra giorno e notte e ventilazione costante e ottimale.Vigneto, il Vigna del Bosco, al cui interno troviamo unicamente Malvasia, Greco ed una variante speciale di Greco denominata Greco mascolino, e la cui resa per ettaro è contenuta in 50 quintali. Con uve ed una vigna del genere c’è ben poco da fare in cantina se non rispettare la materia prima di cui si dispone e guardarsi bene da ogni forma di interventismo o magari dalla (insana) tentazione, sempre in agguato tra gli enologi di oggi, di fermentare e affinare il vino in legno per renderlo più importante. Il che nove volte su dieci significa più presuntuoso e meno piacevole da bere. Qui la fermentazione si svolge unicamente in vasche d’acciaio come pure l’affinamento, sui lieviti fini, per 4-5 mesi, senza lo svolgimento della malolattica, seguito da un periodo di permanenza in bottiglia prima della commercializzazione. E come nel caso dei grandi vini bianchi è proprio nel corso della permanenza in vetro che il vino si completa, si armonizza ulteriormente, raggiunge maggiore profondità, complessità e carattere. Degustato, o meglio bevuto, su un piatto classico della cucina pugliese come orecchiette con broccoletti (e un filo di acciuga) il Gravina Poggio al Bosco 2010 (che avevo già super apprezzato, in compagnia di Francesca Tamburello, Marina Alaimo, Luciano Pignataro e appunto Beniamino a fine novembre in quel posto fonte di ogni enogastronomica delizia che è Antichi sapori di Pietro Zito a Montegrosso di Andria) mi ha confermato di trovarmi di fronte al miglior vino bianco pugliese (oh yes!) e ad uno dei migliori bianchi di tutto il Sud. Un vino di gran carattere, anti-spettacolare, lontano da ogni forma (stupida e ingenua) di piacioneria, che non ricorre ad effetti speciali e non strizza l’occhio, un’autentica espressione delle grandi potenzialità dei più vocati terroir di Gravina in Puglia e di quel vigneto di cui è figlio. Già dal colore si capisce di trovarsi di fronte ad un vino di forte personalità, colore paglierino oro intenso, luminosissimo, di bella consistenza e densità nel bicchiere. Poi passati al naso si alza il sipario e comincia la rappresentazione di una sorprendente eleganza e mineralità da bianco nordista in un vino che è viceversa espressione della solarità e del calore (inimitabili) del Sud: grande intensità aromatica, ampia tessitura e ricchezza, note di frutta giustamente matura, pesca gialla e pesca noce, un filo di mela e poi agrumi, e poi mandorla e fiori d’arancio a profusione, anche canditi, e poi fieno e fiori secchi, in una cornice di grande fragranza, sapida, nervosa, incisiva. L’attacco in bocca è ben secco, asciutto, deciso, di gran nerbo salato, con quel carattere specialeche la Murgia sa dare (oltre che ai magnifici funghi cardoncelli e alle erbe spontanee) ai suoi vini. Poi il gusto si allarga progressivamente in bocca, pur mantenendosi più verticale che ampio o voluminoso, con ottimo allungo e dinamismo, bella articolazione, ricchezza di sapore, elementi che prevalgono su un prevedibile carattere fruttato, che pure c’è, in secondo piano, e non diventa mai protagonista, lasciando il proscenio al terroirmurgiano, al rigore, alla petrosità e al sale, ad un’acidità perfettamente bilanciata, alla freschezza, tutti elementi dati dall’origine del vino, dal luogo (speciale) dove nasce. E che ha la capacità, come capita solo ai grandi vini, che non sono ubiquitari e non possono che nascere solo nel posto dove sono nati e non a 500 o 1000 chilometri di distanza, e non sono ripetibili, intercambiabili ma unici, di evocare e raccontare. Per conoscere la nuova realtà del vino pugliese un vino imprescindibile. Franco Ziliani

 

Questo articolo viene pubblicato contemporaneamente su:

www.ivinidiradici.com

http://www.lucianopignataro.it/

www.vinoalvino.org


Tutte le news